La chirurgia estetica non è un burqa di carne. È uno strumento al servizio della libertà e del benessere della persona. È una forte presa di posizione quella della SICPRE, Società italiana di chirurgia plastica ricostruttiva ed estetica, contro l’espressione usata dal Cardinale Gianfranco Ravasi durante la conferenza stampa del Pontificio Consiglio per l’assemblea plenaria sul tema «Le culture femminili: uguaglianza e differenza».
«La nostra esperienza di chirurghi plastici pullula di casi di donne e uomini che dopo aver corretto un difetto o attenuato i segni lasciati dal tempo sono diventate veramente se stesse – dice Fabrizio Malan, presidente della SICPRE -. Questo è esattamente il contrario del burqa, uno strumento di limitazione della libertà personale, di omologazione. Il discorso, ovviamente, vale per una chirurgia estetica scelta consapevolmente da persone mature e informate, il cui desiderio è appunto quello, totalmente lecito, di un maggior benessere, non dell’omologazione a un modello imposto».
L’espressione “burqua di carne” era contenuta nella Traccia di lavoro per l’Assemblea Plenaria sul tema “Le culture femminili: uguaglianza e differenza”, documento in cui si legge: «La chirurgia estetica può essere inquadrata come una tra le tante possibili manipolazioni del corpo che ne esplorano i limiti rispetto al concetto di identità. Una specificità che nel mondo contemporaneo è sottoposta a pressioni fino al punto da provocare patologie (dismorfofobia, disturbi alimentari, depressione…) o “amputare” le possibilità espressive del volto umano così connesse con le capacità empatiche. La chirurgia estetica, quando non è medico-terapeutica, può dunque esprimere aggressione all’identità femminile, mostrando il rifiuto del proprio corpo in quanto rifiuto della “stagione” che si sta vivendo».
«Il riferimento all’amputazione delle possibilità espressive del volto umano è chiaramente un riferimento ai trattamenti per le rughe, ma si tratta di un’affermazione estremizzata – dice ancora Malan -. Nella grande maggioranza dei casi, al contrario, questi trattamenti ben eseguiti permettono al viso di ritrovare la sua espressività».
«È estremamente pericoloso definire in senso negativo ogni intervento atto ad attenuare gli effetti dell’invecchiamento – dice ancora Malan – perché di questo passo anche la cura delle malattie diventa un rifiuto dell’accettazione della propria condizione. Mi permetto di suggerire a chi ha stilato il documento di rileggere il discorso che Papa Pio XII fece ai partecipanti al Congresso nazionale della SICPRE del 1958. L’intero discorso è interessante e profondo, ma alcuni passaggi sono particolarmente significativi:
«…Lo sviluppo del tutto recente della chirurgia plastica, e più propriamente estetica, ha tenuto vivo per molto tempo, nella coscienza cristiana, l’interesse intorno alla liceità dei suoi interventi, particolarmente di quelli indirizzati, non tanto al ripristino funzionale, quanto a ottenere un positivo abbellimento della persona, per esempio, con la modifica dei tratti fisionomici, o, semplicemente, con l’ablazione delle rughe sopravvenute per l’usura naturale del tempo. La bellezza fisica dell’uomo, manifestata principalmente dal volto, è in se stessa un bene, quantunque subordinato ad altri beni superiori, e pertanto pregevole e desiderabile. Essa è, infatti, un’impronta della bellezza del Creatore, perfezione del composto umano, normale sintomo della sanità fisica».
E ancora: «Ora, non vi è dubbio che il cristianesimo e la sua morale non hanno mai condannato, come illecita in sé, la stima e la cura ordinata della bellezza fisica» «Si faccia l’ipotesi di un individuo, che chieda alla chirurgia estetica il perfezionamento dei suoi tratti, già conformi ai canoni della normale estetica escludendo ogni intenzione non retta, qualsiasi rischio alla sanità e ogni altro riflesso contrario alla virtù, ma solo — purché una ragione è ben necessario che si dia — per la stima della perfezione estetica e per il godimento del suo possesso. Quale sarà il giudizio della morale cristiana? Tale desiderio o atto, come è presentato dall’ipotesi, non è in sé moralmente buono, né cattivo, ma soltanto le circostanze, alle quali in concreto nessun atto può sottrarsi, gli daranno il valore morale di bene o di male, di lecito o di illecito. Ne deriva che la moralità degli atti che riguardano la chirurgia estetica dipende dalle circostanze concrete dei singoli casi».